Quest’anno la riapertura delle scuole si preannuncia un po’ meno caotica grazie anche all’accordo sulla mobilità dei docenti e alle procedure più tempestive e stringenti
di Salvatore Maria Micciché (*) – Ricomincia l’anno scolastico e i “media”, puntualmente, accendono i fari sul mondo della scuola. Sullo sfondo rimangono irrisolti i vecchi e i nuovi problemi che, a partire dagli anni ‘70, hanno interessato il discorso sull’istruzione nel nostro tempo.
Quest’anno la riaperture delle scuole si preannuncia un po’ meno caotica, dovuta a qualche residuo di buon senso, grazie anche all’accordo sulla mobilità dei docenti e alle procedure più tempestive e stringenti.
Non mancano, peraltro, ulteriori questioni spinose (la sicurezza degli edifici, l’introduzione dell’obbligo della vaccinazione) che si sono aggiunte ad altre tensioni già affiorate a seguito dell’entrata in vigore della cosiddetta Buona Scuola (legge 13/7/2015 n. 107) quali, ad esempio, la valutazione degli insegnanti che ha finito, come è stato sostenuto da più parti, con l’incrementare la competizione non solo tra i docenti ma anche tra i banchi di scuola.
Su quest’ultimo aspetto ci sarebbe da fare un discorso a parte. La cosiddetta “chiamata diretta” (nuovo sistema di assegnazione a discrezione dei dirigenti scolastici) si è rivelata, nei fatti, del tutto impraticabile.
Il personale delle segreterie è stato obbligato in lavori supplementari, anche per il fatto che le scuole hanno avuto istruzioni dal Ministero di non procedere, come avveniva nel passato, alla nomina di “supplenti temporanei” (fino ad avente diritto).
La ministra Fedeli ha recentemente dichiarato che “quest’anno avremo 15 mila supplenze in meno”. In realtà i posti in più ottenuti con l’ultima finanziaria sono stati utilizzati per la copertura dei posti vacanti nell’ultima tornata di immissioni in ruolo.
Secondo stime ufficiose (fonte sindacale) risultano 13.500 su 52.000 posti non ricoperti, a causa della mancanza di docenti specializzati o abilitati nelle regioni del nord (fino al 40%) e del centro (fino al 20%) dove grande è la richiesta, come per il sostegno, per la matematica alle Medie e per la lingua straniera alle Superiori (in particolare spagnolo).
Non così al sud, dove i posti rimasti liberi (soprattutto alle elementari) sono stati coperti grazie al ricorso alle vecchie graduatorie ad esaurimento. Dunque anche quest’anno non si potrà fare a meno di ricorrere alle supplenze, utilizzando in tal caso il meccanismo, già collaudato, delle cosiddette graduatorie provvisorie.
Ma se si allunga lo sguardo al contesto più generale emerge che l’Italia è penultima in Europa per numero di laureati (appena il 18 % contro la media del 37% nell’area OCSE).
Il tasso di occupazione dei laureati compresi tra i 25 e i 34 anni è del 64%. I laureati in materie umanistiche sono ben al di sopra del 30% del totale, con un tasso di occupazione del 64cuc%. I giovani ingegneri hanno invece un tasso di occupazione dell’84,9%.
L’intero budget del finanziamento destinato all’istruzione (rif. Anno 2014) dalla scuola Primaria fino all’Università raggiunge appena il 7,1% della spesa pubblica (ultimi nel ranking OCSE).
Sono questi alcuni dati (riferiti al 2014) contenuti nell’ultimo Rapporto OCSE sull’istruzione 2017 che ci inducono a porci la stessa domanda da più di quarant’anni rimasta senza risposta: quale scuola vogliamo per il nostro Paese, quali insegnati, quale organizzazione?
Nel corso di tutti questi anni si è sviluppata una lunga, articolata discussione, tra gli esperti, il mondo politico, il mondo economico e sindacale incentrata sulla necessità di riformare il sistema di istruzione per meglio adattarlo alle mutate esigenze sociali ed economiche, partendo dalla constatazione che la scuola pubblica era diventata una realtà difficilmente governabile, in quanto inserita in una organizzazione centralistica e burocratica.
La scelta è stata quella di porre in essere un processo di decentramento, realizzato con la formula del riconoscimento dell’autonomia amministrativa, didattica, organizzativa alle scuole. Questa scelta avrebbe dovuto avvicinare l’Italia ai Paesi in cui le scuole sono Enti autonomi con ampi poteri decisionali.
I primi passi furono compiuti con la Conferenza Nazionale sulla Scuola organizzata dal Ministero della Pubblica Istruzione a Roma dal 30 gennaio al 2 febbraio 1990. Il processo trovò una prima conclusione con l’inserimento dell’art. 21 nella legge 59/97 e con il successivo Regolamento (D.P.P. 275/99) con cui venne riconosciuta autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sperimentazione a tutte le scuole che entro il 31/12/2000 avessero rispettato determinati parametri.
La riforma, fortissimamente voluta dall’allora Ministro Berlinguer, nacque più come “atto volontaristico” che come vero progetto compiuto, organicamente strutturato, in quanto tale suscettibile di rigoroso monitoraggio e valutazioni adeguate.
Scompaiono i Provveditori agli Studi, gli IRSSAE, nascono i Dirigenti Scolastici al posto dei Presidi e di Direttori Didattici (todos caballeros), nascono gli Uffici Scolastici Regionali, composti quasi esclusivamente di personale amministrativo e non come struttura di supporto tecnico-professionale nasce l’INVALSI, che solo negli ultimi anni, tra tante contraddizioni, ha potuto svolgere la sua funzione di valutazione e monitoraggio, mentre le altre forme di regolamentazione inizialmente previste non vennero realizzate al momento dell’avvio dell’autonomia.
E’ stato giustamente osservato che “si è trattato di un’autonomia incompiuta senza reali poteri (salvo per il Dirigente Scolastico, considerato “responsabile dei risultati”, senza peraltro poter agire sulle leve necessarie ad ottenerli, un “Amministratore delegato” senza poteri necessari per ottenerli).
Nel corso degli anni i cambiamenti introdotti, com’era peraltro prevedibile, hanno condotto verso un progressivo indebolimento del ruolo dello Stato nell’istruzione pubblica, senza neanche aver seriamente assimilato e adattato modelli già sperimentati in Europa.
Così, in una fase di incertezza, a maggioranza, viene scardinato un sistema considerato Stato-centrico e “si tenta una strada impervia e senza precedenti storici”: la Riforma del titolo V della Costituzione (grazie alla quale l’istruzione non è più considerata competenza esclusiva dello Stato). A questo si aggiunge la legge 62/2000 sulla parità scolastica.
La legge costituzionale 3/2000 conferma la competenza dello Stato nell’istituzione di scuole ma assegna la gestione alla legislazione concorrente con le Regioni. Allo Stato, in via esclusiva, restano solo i livelli essenziali delle prestazioni e le norme generali sull’istruzione. Introducendo la distinzione tra Repubblica e Stato poi si è legittimata costituzionalmente la separazione, già auspicata nel documento dell’Ulivo del 1995, tra scuole della Repubblica e scuole dello Stato.
Le azioni dei successivi Governi partono da queste premesse per avviare la loro opera di disarticolazione.
In sintesi si può dire che è stato realizzato un sistema lacunoso, quasi un ibrido che ha finito col creare molti più problemi di quelli che aveva preteso di risolvere. L’autonomia, così coma l’abbiamo vista all’opera, ha portato con sé una mutazione genetica della scuola pubblica. La scuola, secondo i principi costituzionali, è infatti una istituzione dello Stato e si declina effettualmente come servizio, servizio pubblico, bene comune, luogo condiviso di cittadinanza e promozione sociale.
“L’istituzione è qualcosa di più di un servizio, è una realtà (formazione sociale) che gode di particolare tutela essendo depositaria di valori fondanti la società e la convivenza civile. Il suo valore non sta solo sulla soddisfazione dell’utente ma anche e soprattutto nella fedeltà ai suoi principi fondanti” (l’albero pieno di rami di cui parlava Concetto Marchesi). Si pensi agli obiettivi di socializzazione, di promozione, di uguaglianza, di opportunità. In quanto istituzione questi principi fondanti non appartengono ai singoli ma a tutta la comunità nazionale.
E’ prevalsa invece una concezione della scuola come servizio: l’utente del servizio è diventato gradualmente sempre “più cliente”.
La talpa dell’ideologia neoliberista ha saputo scavare in profondità negli anni del tramonto della politica, associando strettamente l’istruzione al concetto di “capitale umano” (V. Theodore Schultz).
“E’ a partire dagli anni Sessanta del Novecento che la “economics of education” ripensa il ruolo dell’istruzione, mettendo implicitamente in discussione il modello di istruzione pubblica come era stata immaginata dalla Rivoluzione francese in poi”.
Sulla scuola per tutti e per i migliori, sulla scuoola inclusiva o selettiva si è giocata negli ultimi cinquant’anni una dura battaglia politica e culturale. La battaglia sembra ormai persa.
Solo se si riuscirà ad affermare un nuovo pensiero che sappia restituire alla scuola (e agli insegnanti) il posto che le spetta come istituzione fondamentale della coesione sociale e dell’unità nazionale, si potrà invertire la rotta. Di fronte alla crisi delle altre agenzie educative la scuola è rimasta il luogo dove esercitare l’uguaglianza. Uguaglianza che è il baluardo per resistere alle ideologie individualiste e all’elogio della competizione e delle competenze, che è fondamento della democrazia e che deve essere tutelata nell’istruzione pubblica.
(*) Già Provveditore agli Studi di Perugia, già Dirigente Ufficio Gabinetto del MIUR. Attualmente è presidente del Nucleo di Valutazione del Conservatorio di Stato “F. Morlacchi” di Perugia.