Un ripasso breve della storia dell’Acciaieria e la sentenza “spazzatrice”
di Adriano Marinensi – Nel momento che sta dando la scena all’ultimo atto della storia ultracentenaria dell’Acciaieria umbra, forse è utile fare un breve riassunto – sommario e schematico – delle “puntate precedenti”. A partire dalla nascita, quando si chiamò SAFFAT, fondata con atto notarile del 10 marzo 1884 ed ebbe “padrini di battesimo” le Tre B: Breda, Brin e Bon. Mantenne la ragione sociale d’origine sino al 1922. Quindi fu Società Terni per l’Industria e l’elettricità: alla poderosa Acciaieria furono affiancate, durante gli anni ’30, le 15 centrali idroelettriche sorte sull’asse fluviale Nera – Velino – Vomano (le maggiori, Galleto, Montargento, Cotilia, Montorio al Vomano, Pennarossa, Recentino, Provvidenza, S. Giacomo). Il tutto nazionalizzato dalla L. 6.12.1962, n.1643, senza riconoscere all’azienda – peraltro già appartenente ad un Ente di Stato, l’IRI – neppure la condizione di auto produttrice. Ora fatemi inserire una brevissima parentesi per un ricordo a qualcosa che non c’è più ed è rimasta nel mio personale affetto. All’inizio del ‘900 nacque, a Terni, la STET per la gestione della tranvia fino a Ferentillo, raccordata con la stazione ferroviaria e con il centro urbano. Fu mezzo di trasporto importante per i lavoratori dell’Acciaieria, quando – così si suol dire – la classe operaia non era ancora andata in paradiso (con l’automobile).
Nell’IRI di Alberto Beneduce, la fabbrica era entrata a metà degli anni ’30, durante il processo di ricostruzione del sistema economico italiano. Ebbe la massima dimensione nel corso della 2^ guerra mondiale, con le produzioni belliche. Nel periodo successivo al conflitto, a seguito dell’attuazione del Piano Sinigaglia, subì un forte ridimensionamento che portò ai licenziamenti di massa del 1952 – 53. Il processo di ripresa fece diventare la “Terni” una grande impresa plurisettoriale che lavorava dal tondino per il cemento armato, sino agli enormi vessel nucleari.
Nei primi decenni del secolo XX, l’Acciaieria ha avuto un ruolo di invadenza sociale nella vita della comunità ternana, supportata dalle esigenze di permanente propaganda fascista. Il paternalismo aziendale di stampo politico, con il triplice scopo di garantire il controllo sociale, il legame delle maestranze alla fabbrica, la fedeltà riconoscente verso il regime. C’erano migliaia di lavoratori da catechizzare e, dietro di loro, altrettante famiglie, spesso numerose. Le attività sportive e dopolavoristiche in prima fila, dal calcio al tiro alla fune e pure le colonie marine e montane, gli asili nido, gli spacci e le mense, la befana fascista: una fitta rete di provvidenze che parvero il dono di mamma fabbrica. I bombardamenti aerei non risparmiarono lo stabilimento, mentre tenace fu la difesa degli impianti da parte delle maestranze contro il sabotaggio dei nazisti in ritirata.
Venne poi il tempo delle joint venture con gli americani attraverso l’impianto della Terninoss per i laminati piani inossidabili. Iniziò anche la produzione del laminato magnetico. Intanto la TAS – Terni Acciai Speciali entrò nell’Ilva ed a corredo nacquero la Società delle Fucine, il Tubificio e la Titania. Nel 1995, sotto la spinta dell’Unione Europea, l’AST è stata privatizzata. Divenne proprietà della cordata Kai, con capofila la tedesca Krupp, affiancata dagli italiani Riva, Falk e Agarini che presto cedettero le loro quote azionarie. Un momento di crisi nei rapporti tra la TK e la città di Terni, si verificò a seguito della decisione di cesare la produzione dei laminati magnetici. La successiva vendita ai finlandesi della Outokumpu ebbe vita breve per l’opposizione dell’Antitrust europeo.
Ora siamo all’ultimo atto con il passaggio al Gruppo Arvedi. Nella prima metà del 2022, è previsto il perfezionamento dell’operazione. A differenza dell’Acciaieria ternana, quella cremonese non ha una lunga storia da raccontare, essendo entrata in esercizio nel 1992. Vanta una tecnologia avanzata nella fusione e nella laminazione sottile; oltre ad una solida conduzione manageriale. In breve tempo è diventata soggetto primario nel panorama internazionale. Il “gemellaggio” con l’AST sta per realizzare una dimensione produttiva adeguata alle esigenze del mercato globale. Per la comunità ternana ed umbra inizia la fase di allerta e di proficua collaborazione.
Alle Forze politiche ed amministrative, alle Associazioni di categoria, al Sindacato il compito di sostenere e vigilare l’operazione. Primo “cono di luce” sul Piano industriale perché sia garantita all’AST la necessaria autonomia operativa, il massimo livello produttivo, la valorizzazione delle capacità tecnico – professionali e l’esperienza delle maestranze, il rispetto dei programmi di recupero ambientale. Occorre attivare un confronto di alto livello democratico, aperto al contributo della società civile, nella ricerca di utili sinergie progettuali per affrontare da protagonisti la competizione che è ormai globale. Terni e l’Umbria chiedono che la fabbrica torni ad essere volano dello sviluppo e motore preminente della crescita occupazionale. Abbiamo bisogno di una presenza sociale dell’economia di mercato. Abbiamo bisogno del nuovo che avanza, in una prospettiva espansionistica. Ci servono Capitani (d’industria) coraggiosi che contribuiscano a scardinare il provincialismo delle piccole idee che, da qualche anno, ci affligge. E fuori da ogni “partita” Ternana – Cremonese.
Metto in coda un argomento, anch’esso, d’ultima attualità. C’è una ricca produzione giudiziaria, letteraria e giornalistica, accumulata per sostenere l’imputazione sulla cosiddetta Trattativa Stato – mafia. Esistono enormi fascicoli, allestiti dalla Magistratura inquirente (con qualche carriera agevolata), ormai quantificabili in chili e non più in pagine. Una eccellente “gabbia” di accusati, con l’addebito di reati non da rubagalline. Alla fine della fiera, è arrivata la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che ha dichiarato il tana libera tutti (dopo i già liberati in precedenza). Il castello accusatorio, cocciutamente tenuto in piedi, è naufragato come la scialuppa di Fantozzi.
In diritto, un imputato può essere assolto in tre diversi modi, ugualmente liberatori: 1) perché il fatto non sussiste (Pietro è accusato di aver ammazzato Antonio, invece Antonio è vivo e sta bene); 2) per non aver commesso il fatto (Antonio è morto, ma non l’ha ammazzato Pietro); 3) il fatto non costituisce reato (l’evento è stato commesso, ma è lecito a norma di legge). Nella sentenza in questione due di queste locuzioni sono state usate a beneficio degli imputati, perché estranei al reato contestato oppure per aver messo in atto una condotta quasi, quasi meritoria. Dunque, siamo alla Bartali, tutto sbagliato, tutto da rifare. E, come ha scritto Carlo Nordio: cadute nel nulla “indagini devastanti per gli imputati, costose per la giustizia, umilianti per il Paese”. Nel suo rabbuffo, rivolto, nella fattispecie, all’approssimativo uso del potere d’indagine, ha utilizzato le stesse parole di Leo Amery rivolte a Chamberlain: “Troppo a lungo avete occupato quel posto, per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene e sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene!” In verità, per il nefando caso Tortora, non se ne andò nessuno. E neppure per altri consimili.