Home Cronaca Il “caso Narducci”, un suicidio trasformato in un thriller giudiziario

Il “caso Narducci”, un suicidio trasformato in un thriller giudiziario

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Con la sentenza della Corte d’Appello si è scritta la parola “fine” ad una vicenda processuale durata più di 30 anni e che ha visto tutti gli imputati uscire di scena innocenti

Francesco Narducci
Francesco Narducci

di Francesco Castellini – Se è auspicabile che la fantasia certe volte superi la realtà, è anche vero che per quanto riguarda il pianeta Giustizia la cosa non può rendere sereni. Anzi!

Basti dire che la tragica morte di Francesco Narducci, che poteva essere archiviata con due sole paginette redatte dal medico legale, grazie ad un tourbillon mediatico e giudiziario, è diventata col tempo il “giallo” del Lago Trasimeno.

E così per più di trent’anni l’opinione pubblica è stata scossa dai continui coupe di teatro di un thriller seriale, che hanno trasformato la prematura morte accidentale del gastroenterologo e docente perugino, (avvenuta l’8 ottobre del 1985), in un “mistero” dai risvolti intriganti, capace di alimentare tesi complottiste e tessere trucide favole nere.

Oggi non c’è dubbio alcuno che il “caso Narducci”, ad un certo punto legato per varie associazioni mentali al “mostro di Firenze”, abbia prodotto in questi anni una strabiliante e fantasmagorica storia virtuale, che, se da una parte ha messo in luce e sancito la “fortuna” di qualche scribacchino di storie noire, e l’assurzione a precaria fama di altri bastian contrari, purtroppo dall’altra ha avuto il demerito di travolgere e sconvolgere i destini di tante persone, risultate oggi per legge assolutamente estranee ai fatti, e dunque finalmente dichiarate innocenti.

A fare definitiva luce sul caso la sentenza del Gup di Perugia, Paolo Micheli, che, con quasi mille pagine, ha stabilito una volta per tutte come si sia trattato di un suicidio, prosciogliendo così tutti gli imputati con la formula ampia “perché il fatto non sussiste” e perché “il fatto non costituisce reato”.

Un giudizio che ha fatto uscire definitivamente di scena una ventina di indagati, tra cui alcuni familiari del medico, pubblici ufficiali ed altri soggetti a vario titolo coinvolti nell’inchiesta, che si erano visti accusati di una decina di reati, come “associazione per delinquere, falso, omissione di atti d’ufficio e occultamento di cadavere”.

Oggi il verdetto finale si riassume così: non è mai esistito un “caso Narducci”.

Suicidio, dunque, come tanti indizi avrebbero dovuto far ipotizzare quasi subito, ma le indagini hanno preso direzioni diverse, indirizzate verso un omicidio in qualche modo legato ai “compagni di merende” e ai delitti del mostro di Firenze.

Ma per arrivare a questo ci sono voluti più di tre decenni di indagini e 16 anni di feroci battaglie giudiziarie.

Comunque alla fine, dopo l’ultima drammatica udienza celebrata proprio in questi giorni in Corte d’Appello, che ha visto l’assoluzione dell’avvocato Alfredo Brizioli (l’ultimo degli imputati), ecco che sul “caso Narducci” è stata scritta la parola fine.

Ma ripercorriamo i capitoli di quello che era stato definito il “mistero del lago”.

Tutto ha inizio nella tarda mattinata dell’8 ottobre del 1985, quando il dottore Francesco Narducci decide di fare un giro in barca al lago Trasimeno.

Verso le 15,30, Francesco Narducci, con la moto, da solo, arriva alla darsena di San Feliciano. Indossa pantaloni lunghi e un giubbino di pelle. Parcheggia e sale sulla barca. Da questo momento si perdono le tracce del dottor Narducci. Al calar delle tenebre c’è ancora la sua moto parcheggiata a San Feliciano.

Il fratello dello scomparso, Pier Luca, anche lui medico, dà l’allarme e le forze dell’ordine cominciano le ricerche, aiutati da alcuni volontari.

Si trova quasi subito la barca, la vede, intorno alle 22, tra le cannine, nella parte nord-ovest dell’isola Polvese, Ugo Mancinelli, un noto commerciante del luogo, ma del medico nessuna traccia.

Il lago restituirà il corpo a ridosso del molo di Sant’Arcangelo la domenica successiva, con il riconoscimento effettuato da due suoi amici direttamente sul posto, come consacrato dal verbale di ricognizione del medico di turno.

Con l’aiuto di Aristide Baldassarre, un pescatore di Sant’Arcangelo, i carabinieri recuperano il cadavere e lo adagiano sul pontile, coprendolo con l’impermeabile dello stesso Baldassarre.

Il corpo senza vita viene riconosciuto da alcuni testimoni presenti e anche dal fratello e dal padre. La salma poi viene trasportata nella villa della famiglia a San Feliciano.

Nel frattempo vengono fatte e date in pasto alla stampa ipotesi di ogni tipo: dall’omicidio, allo scambio di cadavere, fino al presunto coinvolgimento del medico perugino nei delitti del “mostro”.

Finché a distanza di 15 anni dal ritrovamento la procura perugina apre una indagine che coinvolgerà tutti gli uffici giudiziari.

Dal 2001 al 2005 accade di tutto e si sviluppa una delle inchieste più lunghe e complesse dell’intera storia giudiziaria nazionale.

Due procure, quella di Perugia e quella di Firenze, impegnano uomini e mezzi a tempo pieno per svolgere indagini in questa direzione preferenziale.

Il ministero della Giustizia, su parere conforme dell’allora capo della Polizia De Gennaro, istituisce addirittura un corpo speciale.

“In quella villa – secondo l’ipotesi accusatoria – è stato sostituito il cadavere appena pescato, con quello di Narducci, ucciso per strangolamento”.

“Questo perché, quello ripescato – sostengono sempre gli inquirenti – non è il corpo di Narducci. Tutti si sono sbagliati? No, peggio, hanno detto il falso, perché tutti erano d’accordo per depistare le indagini”.

Questo ha sempre pensato il magistrato inquirente di Perugia, Giuliano Mignini, che ha seguito il filone umbro dell’inchiesta più ampia, sul mostro di Firenze, condotta, nel capoluogo toscano, dal pm Paolo Canessa con il comandante della squadra antimostro della Polizia, Michele Giuttari.

Il magistrato inquirente è stato sempre convinto che tutta l’attività di depistaggio, che avrebbe anche portato alla sostituzione della salma, sarebbe dovuta al fatto che Ugo Narducci, il padre del medico morto, era a conoscenza del coinvolgimento del figlio nelle indagini della Procura di Firenze sul mostro e sugli 8 duplici delitti legati a quella losca faccenda dei “compagni di merende”, nella quale sono stati a vario titolo coinvolti Pietro Pacciani, Giancarlo Lotti e Mario Vanni.

Ma questi, secondo quanto hanno sostenuto sia il procuratore di Firenze che quello di Perugia, potrebbero essere soltanto gli esecutori, i mandanti dei delitti, che avvennero dal 21 agosto del 1968 al 9 settembre del 1985, sarebbero invece altri, tra cui appunto – sempre secondo gli investigatori – Francesco Narducci e un farmacista di San Casciano, di 63 anni, Francesco Calamandrei. Quest’ultimo, però, processato recentemente, è stato assolto in primo grado.

Per l’accusa, dunque, gli omicidi venivano fatti per poi tagliare con “precisione chirurgica”, probabilmente con un bisturi, il pube delle ragazze e offrirlo a Satana durante le messe nere.

Per questo, per allontanare queste terribili ombre sulla vita segreta del figlio e non coinvolgere la sua famiglia in questa catena di sangue, gli investigatori hanno sempre pensato che il dottor Ugo Narducci, abbia cercato in tutti i modi di far passare come suicidio quello che invece suicidio non era, e di evitare l’autopsia, contando sul questore Trio, suo carissimo amico, nonché sulle altre amicizie influenti di cui poteva godere, comprese le affiliazioni massoniche.

Forti pressioni, per nascondere la verità, ci sarebbero state anche nei confronti di alcuni investigatori. Secondo quanto scrive il dottor Mignini “gli agenti Valerio Pasquini ed Emilia Cataluffi, appartenenti a diversi organi di polizia, dovettero interrompere le indagini per ordini superiori e un ispettore non venne creduto quando riferì il modo in cui si è consumato l’omicidio, per incaprettamento”.

Un pescatore di Monte del Lago, uno dei tanti interrogati, pare che abbia riferito proprio questo macabro particolare: di aver visto Francesco Narducci, il giorno dopo la sua scomparsa, incaprettato sulla spiaggia dell’isola Polvese.

Ma è compatibile la testimonianza di quest’ultimo pescatore con il corpo ripescato nel lago? Anche perché sarebbe da chiedergli perché non informò subito i carabinieri. Come si vede un intreccio di testimonianze piuttosto ingarbugliate che hanno colorato di “giallo” quello che ora, è definitivamente accertato, fu un suicidio.

Il dottor Giuliano Mignini, il pm di Perugia, d’altronde, convinto di trovarsi davanti ad un omicidio, ha lavorato per molti anni, con scrupoloso impegno, a questa ipotesi investigativa senza però trovare i riscontri e le prove per sostenere l’accusa davanti ai giudici di una Corte d’Assise ed ora il Gup Micheli, nella sentenza, ammette che “quelle indagini era doveroso farle pur non essendo condivisibili le conseguenze”.

Da qui gli avvisi di garanzia: con i familiari di Francesco Narducci, il padre Ugo ed il fratello Pier Luca, sono stati indagati l’avvocato della famiglia, Alfredo Brizioli, l’ex questore Francesco Trio, l’ex comandante dei carabinieri colonnello Francesco Di Carlo nonché, la dottoressa che quel giorno firmò il certificato di morte, Donatella Seppoloni.

Sono state perquisite le loro abitazioni perché – per l’accusa – avrebbero fatto tutti parte di “un’associazione a delinquere finalizzata al vilipendio, alla distruzione e all’occultamento di cadavere”.

Per tre degli indagati: l’avvocato Brizioli (secondo l’accusa ci sarebbe stato anche, da parte dell’avvocato, un intervento subacqueo nel lago, con muta e pinne, il giorno dopo la scomparsa del medico), l’ex questore Trio e l’ex comandate dei carabinieri di Perugia, Di Carlo, il pm ha chiesto al Gip, addirittura l’arresto, che non è stato concesso, ma Mignini ha ripresentato la sua richiesta al Tribunale del riesame, che poi ha deciso la custodia cautelare solo per l’avvocato Brizioli.

E sarà proprio l’avvocato Brizioli a giocare un ruolo importante in tutta questa vicenda. Lui non si è mai rassegnato, anzi, si è sempre opposto con tenacia per respingere le accuse e contribuire ad accertare la verità in riferimento a questa immensa struttura investigativa. Lui, grande amico di Francesco unitamente al padre Antonio, con estrema decisione ha dato vita a veri e propri scontri sul piano procedimentale con gli investigatori.

Sostiene da subito con forza l’estraneità di Narducci a qualsiasi addebito formulato dalla procura e la conseguente infondatezza d’ogni risultanza che bolla come “fantasiosa e priva del pur minimo riscontro oggettivo”.

Per il legale l’amico Francesco è morto per una disgrazia. Punto e basta.

Con Brizioli che viene messo sotto pressione dalla procura fino a costringerlo a rinunciare all’incarico difensivo. Ma tutto quello che è stato fatto dal legale in 5 anni sarà la base sicura che porterà all’affermazione in giudizio della verità da lui sempre sostenuta.

Una verità sempre perseguita con tenacia, nonostante intervengano nel frattempo sentenze definitive che consacreranno l’impostazione delle indagini con l’assoluzione di tutte le persone ingiustamente coinvolte nella vicenda.

Ciò non è bastato a Brizioli, che non pago dell’archiviazione del caso chiede di essere giudicato per tutti i reati via via contestatigli e per i quali ha per ben due volte rinunciato alla prescrizione.

E’ intervenuta una prima sentenza di assoluzione da parte del gup Giangamboni su richiesta conforme dell’allora procuratore capo aggiunto Duchini.

Nonostante questo la procura generale ha ritenuto opportuno proporre appello a firma del dottor Castagliola con motivi aggiunti sottoscritti dal dottor Mignini.

E siamo ad oggi, quando a fronte di una richiesta di condanna di Brizioli ad un anno e sei mesi di reclusione la corte ha deciso per l’ennesima assoluzione (via ogni addebito).

Quindi dopo sedici interminabili anni di indagini e processi, la storia giudiziaria più clamorosa mai transitata presso la procura del capoluogo umbro può dirsi definitivamente chiusa.

Questo grazie anche al fatto che l’avvocato Alfredo Brizioli non si è mai arreso.

«Per il mio assistito sono stati quindici anni di sofferenza»

Giovanni Spina, avvocato difensore di Alfredo Brizioli, annuncia un’istanza di risarcimento e si dichiara soddisfatto: «Alla fine Giustizia è stata fatta»

 

L'avvocato Giovanni Spina
L’avvocato Giovanni Spina

di F.C. – All’avvocato Giovanni Spina, da sempre legale difensore di Alfredo Brizioli, abbiamo rivolto alcune domande.
Dottore, in tutti questi anni infarciti di tanti colpi di scena, che idea si è fatto infine di questo tormentato caso giudiziario?
«Credo di conoscere come pochi questa vicenda. La mia impressione è che siamo di fronte ad un mistero che non esiste. Reputo la versione accusatoria romanzesca. Una tesi intorno alla quale si è voluto costruire un caso che non c’era. E non lo dico perché oggi siamo arrivati all’assoluzione di Brizioli, il punto fermo lo avevamo già da prima.
Il Gup, (mi riferisco alle oltre 900 pagine della sentenza Micheli che è un caposaldo, peraltro scritta in maniera egregia), ha il merito di aver smontato tutta quella accusa che era inconsistente ab initio».
La Cassazione ha di fatto confermato la sentenza Micheli in punto di insussistenza dell’associazione e del legame associativo tra quei soggetti che avrebbero secondo la tesi accusatoria proceduto alle operazioni della sostituzione del cadavere ecc. ecc..
«Sì, ma oggi in più, intorno a tutti gli altri reati ascritti a Brizioli (erano un’infinità, basta rileggere il capo di imputazione), c’è stata una doppia assoluzione, in primo ed in secondo grado. La prima parte della sentenza Micheli già aveva avuto all’epoca conferma definitiva, adesso c’è stata la conferma da parte della Corte d’Appello di quel proscioglimento dai reati residui (cosa della quale peraltro non ho mai dubitato) e quindi si sta formando un giudicato completamente assolutorio (salvo che non intervengano ulteriori impugnative, c’è da aspettarsi di tutto, ma a questo punto lo escluderei…)».
Per arrivare ad ottenere questo estremo giudizio il suo assistito ha rinunciato alla prescrizione.
«Va ribadito che la Cassazione aveva ritenuto che il Gup fosse andato al di là dei propri poteri e si fosse arrogato i poteri del Giudice del dibattimento e fosse quindi entrato nel merito delle accuse.
E quindi aveva rinviato per un nuovo giudizio avanti ad altro Gup.
Nell’ambito di questo giudizio nuovo era calata la prescrizione.
E se è vero che spesso la prescrizione salva gli imputati, in questo caso mi permetto di dire che la prescrizione ha salvato il Pubblico Ministero (solo in parte) perché ha impedito che su una parte di quei reati (del tutto insussistenti a mio parere) calasse un giudicato. La maggior parte degli imputati si sono accontentati di una sentenza che dichiarasse la prescrizione pur di uscire da questa vicenda, ma il mio assistito ha rinunciato alla prescrizione perché intendeva pervenire ad una sentenza che passasse in giudicato in merito a tutti i reati che gli erano stati contestati. Brizioli rinunciando alla prescrizione ha impedito che la prescrizione salvasse l’accusa e cioè che l’accusa venisse in qualche modo ratificata, con una sentenza che non andasse ad accertare alla radice l’insussistenza dei reati, ma che dicesse solo “è passato del tempo, non si può più giudicare».
In definitiva quella tesi propugnata in virtù della quale tutte queste persone sono andate a giudizio non ha mai trovato una conferma giudiziale, ma anzi ha sempre trovato una piena smentita processuale?
«Proprio così! Non ha mai trovato uno straccio di conferma giudiziale. Ogni volta che è arrivata davanti ad un giudice si è puntualmente verificata una assoluzione piena nel merito, per totale infondatezza di ogni capo d’imputazione».
Questa tormentata vicenda che ha visto Alfredo Brizioli doversi difendere dalle accuse gravissime di aver partecipato ad una associazione per delinquere finalizzata ad occultare le ragioni per le quali Francesco Narducci era stato assassinato, e dunque aver proceduto alla sostituzione del cadavere ripescato dalle acque del lago Trasimeno, con altro, perché non accertasse l’omicidio, e dunque l’accusa di depistaggio delle indagini che su proposito si erano andate ad incardinare, è durata più di 15 anni.
«Non c’è dubbio che abbia causato un’enorme sofferenza. Ma mi permetto di aggiungere che l’epilogo della vicenda deve rassicurare il cittadino.
Questa storia ha dimostrato che nonostante ci sia il rischio che sulla scorta di una tesi accusatoria inconsistente si vada sotto processo e ci si stia per quindici anni, alla fine allo stato dei fatti non è mai venuta fuori una condanna.
Quindi non possiamo non riconoscere che la Giustizia, e in particolare i magistrati giudicanti, nel momento in cui il processo è arrivato in loro mano l’hanno congruamente trattato e sono pervenuti alla declaratoria dell’insussistenza di tutti i reati. Quindi il cittadino deve sì aver paura della Giustizia perché l’errore o l’incolpazione ingiusta sono sempre in agguato, ma nello stesso tempo deve prendere atto che la verifica puntuale in sede giudiziaria delle accuse inconsistenti produce delle sentenze assolutorie, quindi questo deve rassicurare».
Ci sarà la possibilità di richiedere un risarcimento per tutti i danni subiti?
«Ritengo senz’altro di sì. Però ovviamente qui arbitro della situazione sarà il mio assistito che al momento del passaggio in giudicato deciderà se e quali strade intraprendere per ottenere un risarcimento.
Da ricordare che lui ha subito una misura cautelare ingiusta, perché venne sottoposto ad arresti domiciliari che il Tribunale del Riesame revocò immediatamente, e già sotto questo profilo avrà accesso a quelle forme di tutela che l’ordinamento garantisce a chi è stato sottoposto a tale provvedimenti ingiusti. In più il mio assistito è stato danneggiato da questa tormentata e triste vicenda anche sotto il profilo professionale.
Non dimentichiamo che Brizioli è stato accusato e processato proprio perché era il legale della famiglia Narducci. Ha dovuto rinunciare a quell’incarico, e si è poi dovuto difendere dalle stesse accuse di cui venivano incolpati i suoi stessi assistiti».
Insomma avvocato, sembra proprio di trovarci nel bel mezzo di un thriller fantasmagorico. Come è potuto accadere tutto questo, e quanto il fatto che la famiglia Narducci appartenesse alla Massoneria ha contribuito ad alimentare fantasie e teorie complottiste poi rivelatisi inconsistenti?
«Devo chiarire che io non sono iscritto e non sono stato mai iscritto alla Massoneria, e non conosco le dinamiche di quel sodalizio. Personalmente credo che in questa vicenda la Massoneria non c’entri un bel niente, ma lo dico da estraneo e quindi non so dare giudizi in merito. Per quanto riguarda il perché si sia costruito questo castello di carta, ho la sensazione che ci sia qualcuno che si sia innamorato di una versione e abbia cercato, in perfetta buona fede, di adattare la realtà processuale a quella tesi precostituita. Ma le versioni debbono seguire, e non precedere, la ricerca della prova. Non si può ricercare la prova a conferma di una versione. Altrimenti alla fine le versioni cadono miseramente come appunto in questo caso è avvenuto».