San Domenico in fiamme con la Danza del fuego di De Falla
Stefano Ragni – Il successo di un Festival non si misura con la serata finale. Ma quando le note di Manuel de Falla hanno sollevato in san Domenico un applauso che più che un’onda sembrava un uragano da stadio, allora vuol dire che il consenso del pubblico ha premiato una scelta programmatica particolarmente felice. Ieri sera nella vasta aula dei Predicatori, illuminata da uno sfondo di palcoscenico giallo abbagliante la Spagna, nazione ospite, ha consumato alla grande i suoi ultimi bagliori, come se avesse tenuto in serbo le sue risorse migliori per un finale da urlo. Che stesse giocando una carta vincente il direttore artistico Sisillo lo sapeva benissimo, conoscendo le risorse di repertorio che può offrire una civiltà musicale che si è espansa nei due mondi. Ma immaginare che l’Orchestra regionale Toscana si trasformasse in un vulcano di ritmi e di suoni, è una cosa che, sinceramente, ha sorpreso anche noi. Un repertorio ribollente, in continuo crescendo, con intensificazioni dinamiche sparse a onde, una sempre più impennata dell’altra. Merito certamente del direttore Juan Carlo Lomonaco che veniva dallo Yucatan, dove ha la sua sede stabile, per ricordarci che enorme serbatoio di tradizioni musicali sia stato anche il Messico ispanico. Danzando come un cortigiano di re Felipe, salutando il pubblico con la squisitezza di un hidalgo, gesti un po’ affettati, ma colmi di cortesia, Juan Carlo, quando ha impugnato la bacchetta ha subito fatto frullare la compagine toscana nella ouverture dell’opera Los esclavos felices di Juan Crisostomo de Arriaga, il cosidetto Mozart spagnolo.
Conservata in un manoscritto fine Ottocento la partitura di un autore morto appena ventenne è parsa una dilatazione della introduzione delle Nozze di Figaro mozartiane, impiantate su uno schema da sinfonia rossiniana, con tanto di crescendo e di falsa ripresa finale. Indubbiamente una scoperta per arricchire il repertorio, ma quel che conta era la carica trasmessa all’auditorio. Ora, a miccia innescata, ecco una praticamente incognita della suite dal balletto La mandrugada del Panadero firmata daRodolfo Halffter negli anni ’40, nella fase iniziale del suo esilio messicano. Poco dopo Halffter sarebbe diventato uno degli esponenti della dodecafonia ispanica, ma per ora era un allievo di de Falla, che, come dissidente franchista, aveva scelto la libertà. Musica repentina, icastica, pungente come un poema picaresco questa che descrive le peripezie amorose di una fornaia alle prese coi suoi amanti.
E’ la Spagna pagana, descritta in un celebre libro da Richard Writhe nel 1957, un impietoso viaggio nel regime franchista che, sotto la cappa di un cattolicesimo dogmatico, nascondeva i bagliori di superstizioni e magie. Mentre Hemingway di eccitava alle corride, Writhe scavava su ritualità ancor più ancestrali, che costituiscono il retaggio di una civiltà che deve ancor molto ai Visigoti invasori. I quadri del balletto si sono rotolati uno sull’altro con ritmi spiccati e carambole timbriche di corni, pianoforte, oboe e crepitanti percussioni. E’ lo stesso apparato del maestro, Manuel de Falla, quando scriveva nel 1915 la sua gitaneria dall’emblematico titolo di El amor brujo – l’amore stregone. Fandango e flamenco a più non posso. Con cante jondo andaluso, quello che affascinava Garcia Lorca. Una tromba per evocare lo spettro dell’amante, con pianoforte, flauti e oboe, poi il brivido della danza del fuego, conosciutissima anche nella versione pianistica che Rubinstein suonava spesso come bis. Saremmo già stati sazi di musica, ma Lomonaco, che nel frattempo riusciva a ottenere dall’orchestra risposte dinamiche straordinarie, con archi morbidamente nervosi, ci ha infilato anche la prima suite del balletto El sombrero de tros picos, un altro affresco defalliano del 1917, stavolta con riprese parigine e interventi di Massine, Diaghilev e Picasso. Già, Picasso. Ci sarebbe stato bene sullo sfondo un siparietto del tipo che il grande artista dipinse nel 1919 per l’ingresso del pubblico. Ma l’orchestra suonava in maniera così colorata da rendere superflua ogni aggiunta.