Record negativo delle nascite: 4.920 contro le 8.271 registrate nel 2008
di Giuseppe Coco*
L’Italia, anno dopo anno, continua a caratterizzarsi come un Paese dove la natalità è ai minimi termini e di conseguenza la popolazione corre a braccia aperte verso un drastico invecchiamento, alimentato soprattutto da due fattori: uno diretto, dato dall’allungamento della vita media delle persone; l’altro indiretto, dovuto alla riduzione della natalità che innesca un processo di “degiovanimento”.
Sotto un profilo generale, i giovani sono sempre meno per cui la popolazione attiva, quella compresa tra 15 e 64 anni, si sta ridimensionando a favore della classe di età superiore. E il risultato di questo processo, seppur apparentemente lento, non è privo di effetti sulla tenuta del sistema socio-economico del Paese: il tessuto produttivo per funzionare necessita, oltre che di capitale finanziario (dotazione di mezzi monetari) e capitale fisico (capannoni, impianti, server, ecc.), di capitale umano, ovvero deve poter contare su una certa massa critica di popolazione in età lavorativa.
Ciò premesso, di seguito analizzeremo dapprima le trasformazioni della popolazione italiana. Dopodiché, ci occuperemo di studiare il caso dell’Umbria. Nelle note finali faremo qualche considerazione di policy.
Le trasformazioni della popolazione italiana
In Italia, in un decennio, nella fascia 0-14 anni si sono persi circa 835 mila persone. Sono passati dal 14,0% al 12,7% della popolazione (tab. 1). Per fare un paragone, è come se si fosse estinta una città (composta da tutti under 14) quasi delle dimensioni di Torino, che ha 848 mila abitanti.
Nella fascia 15-64, che rappresenta la popolazione attiva, tra il 2012 e il 2022 si sono avute -1,2 milioni di persone, che in termini percentuali equivale al -1,7%. Per fare un paragone, è come se avessimo perso in un colpo solo due città delle dimensioni di Genova (561 mila ab.) e Palermo (635 mila ab.).
Al contrario delle tendenze appena rilevate, la fascia degli over 65 è cresciuta di circa 1,7 milioni (+3%). In questo caso è come se fosse “nata” una città (composta di soli over 65) con più abitanti di Milano (1,35 milioni ab.), anche se, consolatoriamente parlando, più piccola di Roma (2,75 milioni ab.).
L’età media si è alzata di ben 3 anni. La qual cosa, in sé, è un fatto positivo. Tuttavia, l’indice di dipendenza strutturale – il carico sociale ed economico della popolazione non attiva (0-14 anni e 65 anni ed oltre) su quella attiva (15-64 anni) – è cresciuto di ben 4 punti percentuali. L’indice di vecchiaia – il grado di invecchiamento di una popolazione dato dal rapporto percentuale tra il numero degli ultrasessantacinquenni ed il numero dei giovani fino ai 14 anni – è lievitato di quasi il 40%.
I nati del 2022 rispetto al 2008 fanno registrare un -184 mila e per la prima volta scendono sotto la soglia dei 400 mila (tab. 2).
Il numero di figli per donna sta continuando a diminuire (tab. 3): nel 2008 il totale era pari a 1.46, nel 2021 è sceso a 1.25. Le donne italiane sono passate dall’avere 1.33 figli nel 2008 all’1.18 del 2021. In questo lasso di tempo è venuto meno l’effetto compensativo delle nascite di cui si erano “fatte carico” le donne straniere: nel 2008 contribuivano alla natalità italiana mediamente con 2.53 figli a testa, nel 2021 il dato è sceso a 1.87. Segno questo che, sempre più spesso, al netto di altri fattori, le donne straniere fanno propri i modelli culturali e gli stili di vita del Paese ospitante.
Sotto un profilo più generale, la bassa natalità, nel momento in cui diviene una costante, va a ridurre progressivamente la popolazione in età riproduttiva. Nella sostanza si ha una diminuzione delle potenziali madri per cui, anno dopo anno, diventa sempre più complicato ottenere risultati soddisfacenti dalle politiche a sostegno della natalità.
Dinamiche demografiche: il caso dell’Umbria
In Umbria, tra il 2012 e il 1° gennaio 2022, nella fascia di età 0-14 anni si sono perse circa 13 mila persone, che in termini percentuali ha significato un decremento del 1,1% (tab. 4). Per fare un paragone, è come se avesse chiuso i battenti un comune (di soli under 14) più grande di Amelia, che ha 11.600 abitanti.
Nella fascia 15-64 (popolazione attiva) si registrano -31 mila persone, che in valori relativi significa -2,5%.
La fascia degli over 65, come era facile prevedere, è cresciuta notevolmente: +20 mila persone in termini assoluti, che in termini relativi equivale a +3,5%. In pratica, è come se fosse “nata” una città di over 65 più grande di Orvieto (19.689 ab.). Però, se può consolare, leggermente più piccola sia di Bastia Umbra (21.256 ab.) che di Corciano (21.429 ab.).
L’età media si è alzata di 2,8 anni. L’indice di dipendenza strutturale è cresciuto di 4,7 punti percentuali. L’indice di vecchiaia fa registrare un +41,8%.
I nati nel 2022 (tab. 5) rispetto al 2008 presentano un delta negativo pari a -3.351.
Il numero di figli per donna continua a diminuire (tab. 6): nel 2008 il totale era pari a 1.44, nel 2021 è sceso a 1.18. Le donne umbre sono passate dall’avere 1.29 figli nel 2008 all’1.09 del 2021. Abbastanza in linea con le tendenze nazionali, anche a queste latitudini Umbria è venuto meno l’effetto compensativo delle nascite di cui si erano “fatte carico” le donne straniere: nel 2008 contribuivano alla natalità umbra mediamente con 2.37 figli a testa, nel 2021 il dato è pari a 1.72.
Dall’Umbria, però, arrivano anche segnali positivi. In particolare, dai dati provvisori del bilancio demografico del 2022 della Regione Umbria, emerge una riduzione della popolazione, rispetto all’anno precedente, inferiore a quello che ci si poteva aspettare: passa da 858.812 unità (1° gennaio 2022) a 854.137 (31 dicembre 2022), che in termini relativi significa un decremento solo del -0,5%. Nella sostanza i saldi migratori – quello interno (+353 unità) e quello con l’estero (+3.743) – hanno compensato in modo abbastanza significativo il saldo naturale pari a -6.686 unità.
Dal grafico 1, che ci mostra come sta mutando la popolazione umbra, emerge che la classe di età 0-10 anni ha un differenziale negativo rispetto a quella degli over 70 di ben 94 mila persone. E, anche se accorpiamo le prime 2 due classi, il differenziale rimane negativo rispetto agli over 70 (-15 mila).
Nella sostanza, le potenziali persone che stanno per entrare nel mondo del lavoro sono decisamente di meno di quelle che sono già in pensione.
Lo scenario, a sua volta, diventa ancora più fosco se si confrontano le classi di età 41-60 anni e 0-20; in questo caso emerge che gli under 20 hanno un delta negativo di ben -110 mila persone.
Qualche considerazione di policy
La struttura di una popolazione, al netto di guerre o pandemie, non muta mai velocemente. Però questa evidenza non deve far dormire sonni tranquilli perché, come si suol dire, i giorni a volte scorrono lenti, ma gli anni volano veloci. E in pratica questo è quello che è avvenuto in Italia negli ultimi decenni per cui, dati alla mano, se nulla muta, ci avviciniamo sempre più ad un punto di non ritorno verso una insostenibilità demografica.
Ciò detto, in una situazione del genere come ci si dovrebbe muovere sul fronte delle policy?
Premesso che sulle politiche demografiche i vari governi regionali possono incidere poco, di sicuro c’è bisogno di:
- ridurre drasticamente il fenomeno dei Neet, ovvero di quei giovani che non studiano e che non lavorano;
- favorire l’autonomia abitativa dei giovani per evitare che si rintanino nella casa dei genitori proprio negli anni più fertili;
- agevolare l’occupazione femminile e delle madri in quanto solo con la presenza massiccia delle donne nel mercato del lavoro un’economia moderna può davvero crescere;
- potenziare i servizi per l’infanzia in modo da assicurare in particolare alle donne la possibilità di raggiungere il giusto equilibrio nel binomio casa/lavoro.
Oltre a queste misure, va previsto anche un sostegno economico significativo per i giovani che hanno voglia di avere figli, ma vi rinunciano perché sono alle prese con un mercato del lavoro che li costringe sia alla precarietà e sia a remunerazioni basse (I giovani, tra assunzioni e dimissioni, alla ricerca di un lavoro più appagante – E. Tondini).
L’assegno unico, nato nel marzo 2022 e di recente rafforzato dal governo Meloni, per come è configurato, se da un lato è indubbiamente un ottimo strumento a contrasto della povertà delle famiglie, dall’altro non sembra avere quell’appeal tale da invogliare i giovani a non rinviare/rinunciare (per sempre) al desiderio di maternità/paternità.
Il fatto da cui non si scappa è che c’è bisogno di far sì che l’avere figli non venga più percepito in Italia come una minaccia al mantenimento del proprio tenore di vita, ovvero allo scivolamento verso la soglia della povertà.
In concreto, se si vuole far convergere in un decennio la natalità italiana verso i livelli di Svezia, Francia, ecc., per chi scrive bisogna agganciare l’assegno unico ad un meccanismo di premialità crescente per chi fa più di un figlio. E, tenuto conto di tutta una serie di fattori (costo della vita, inflazione, ecc.), la misura dovrebbe corrispondere a 300€ al mese (10€ al giorno) per chi ha un figlio; 900€ (30€ al giorno) se i figli sono due; 1.800€ (60€ al giorno) quando sono tre; e poi 1.000€ per ogni figlio aggiuntivo al terzo.
Di primo acchito, per qualcuno, certi importi potrebbero sembrare troppo drenanti per le casse dello Stato. In realtà, vista la piega che hanno preso le dinamiche demografiche in Italia, questo tipo di misure andrebbero considerate come un investimento necessario per darsi come Paese la possibilità di continuare ad avere un futuro.
* Agenzia Umbria Ricerche