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Intervista a Chiara Roscini, artista figurativa

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Già assistente del Maestro Venanti, esprime il suo talento attraverso il disegno, la pittura e la fotografia

di Elvira Picchioni

Chiara Roscini inizia da giovanissima a dimostrare una predilezione per l’arte figurativa ma è con gli insegnamenti di don Nello Palloni – considerato dai critici d’arte l’erede perugino del Futurismo, sulla scia del grande Gerardo Dottori – che inizia la sua carriera di artista, prima come sua assistente e poi come collaboratrice. Nell’ultimo periodo è stata anche assistente di Franco Venanti, recentemente scomparso. Il suo spettro artistico è molto vario: fotografia, pittura – soprattutto ad olio – disegno. Ha esposto le sue opere nella mostra “Convergenze creative: esplorazioni artistiche a due voci” insieme allo scultore Giancarlo Santi.

Chiara, tra i tuoi lavori esposti alla mostra, un quadro era in primo piano: il ragazzo con i pantaloni scozzesi. Me ne vuoi parlare?

Si tratta di un lavoro che avevo realizzato nel 2008 per partecipare ad un concorso su Perugia. Non amo particolarmente realizzare scorci cittadini e quindi mi era venuto in mente di ritrarre il mio compagno come protagonista della scena. Sono molto legata a questo lavoro proprio per questo.

La tua formazione artistica parte dagli insegnamenti di un don. Che tipo di maestro è stato Nello Palloni?

Con lui mi sono trovata bene. In qualsiasi contesto lui si trovasse era percepito come sacerdote e di conseguenza si comportava. Quindi spesso i suoi interlocutori erano particolarmente attenti a come si ponevano nei suoi confronti. Essendo una persona particolarmente intelligente, era consapevole di questa percezione e probabilmente gli pesava. Non poteva essere se stesso. Era un grande appassionato di musica. Aveva studiato pianoforte. Aveva frequentato il conservatorio. Era sempre stato un intellettuale, attento anche alle nuove tecnologie. Insomma una persona molto interessata alla conoscenza del mondo. In questo mi ricorda molto Franco Venanti. Entrambi persone estremamente interessanti.

Quindi quando don Nello si trovava nell’ambito ecclesiale faceva “discorsi da sacerdote”. Quando invece eravamo a bottega – ci ho lavorato otto anni e mezzo (dal 1999 al 2007 ndr) – non ha mai parlato di questioni relative alla Chiesa.

Una lezione rimasta negli annali?

Non avevo ancora iniziato a dipingere e come prima cosa mi ha indicato l’uso dei gessetti per imparare l’uso delle sfumature. Dopo pochissimo tempo mi mise davanti pennelli, tela e sedia e poi mi disse: “vai” e mi lasciò sola. Mi ricordo che non sapevo dove mettere le mani. Tornato a vedere i miei progressi, soprattutto quando veramente non sapevo dove mettere le mani, tracciava lui due righe per guidarmi e poi nuovamente mi “buttava fuori dal nido”.

Tra Nello Palloni e Franco Venanti posso dirti di aver avuto la fortuna di conoscere due persone magnifiche. Poi da sempre adoro le persone più grandi di me: hanno cose da raccontare, mi trovo bene con loro. Non solo per quello che possono trasmettere come sapere personale ma anche il modo di confrontarsi con gli altri, come muoversi nel mondo.

Chiara Roscini con il Maestro Franco Venanti

Hai lavorato infatti anche con Franco Venanti, proprio nell’ultimo periodo. Il ricordo più bello che ti ha lasciato?

Con lui ogni giorno era un’avventura soprattutto nei vincoli di Perugia. Un incubo. Spesso si creavano situazioni da panico in cui io non sapevo dove andare e mi ritrovavo nei vicoli perugini notoriamente molto stretti da cui non riuscivo a tornare indietro. E lui tutto placido mi diceva: “Certo che sei proprio ostinata” con quella saccenza che io adoravo. Vivevo quotidianamente, per il poco tempo che passavo con lui durante la giornata, tre mila avventure condensate e ogni giorno era diverso.

C’è qualcosa che rimpiangi?

Purtroppo con Venanti è stato breve anche se intenso. L’ho conosciuto per poco tempo ma era veramente un vulcano e una persona dolcissima, almeno con me. Sicuramente era un persona esigente, puntigliosa. Ma il mio problema è che adoro le persone così, perché anche io lo sono.

Una situazione che mi faceva sorridere erano i siparietti con la moglie. Era impegnativo. Al di là delle affinità, al contrario di me era una persona estremamente sociale. Lui andava proprio in cerca di una comunità, gli piaceva stare tra le persone. Io invece non lo sento come una cosa vitale. Se mi trovo tra le persone sto bene ma non lo ricerco. Sono una persona che ha bisogno di tanto tempo da sola sia per stare bene che per creare. Proprio su questo punto infatti il Maestro mi rimproverava definendo la vita che conducevo come “quella delle galline” sempre dentro al pollaio.

La pandemia ha lasciato strascichi nel tuo approccio al lavoro?

Onestamente non credo. Ho sempre condotto una vita molto particolare anche a livello lavorativo. Ho quasi sempre lavorato nel mio studio, anche grazie alle commissioni che mi arrivavano direttamente. Con Venanti ho ricominciato a muovermi fisicamente per andare al lavoro. Come ti dicevo non amo molto stare nella folla quindi per me è stato vantaggioso quel periodo. Le restrizioni non mi stavano bene, come immagino a tutti, ma ero tranquillissima nel rispettarle. C’è un motivo se ti si chiede di fare qualcosa. Il periodo covid non è stato traumatico. La situazione sicuramente non ti faceva stare tranquillo: non sapere come si sarebbe evoluto non ti permetteva di stare tranquillo rispetto al futuro. Ma penso che sia stata una situazione che abbia pesato a tutti. Dal punto di vista prettamente pratico non mi ha creato problemi di alcun tipo.

Quello che mi dispiace è che non abbiamo tratto alcun insegnamento, mi sembra, da questo momento difficile. È stata una parentesi infelice che si è esaurita con la diffusione dei vaccini e il ritorno alla normalità. Spero che a livello istituzionale si sia imparato qualcosa.

Il tuo spettro artistico si divide principalmente tra tre grandi aree: il disegno, la pittura e la fotografia. Ce n’è uno che più ti rappresenta, che più senti tuo?

La fotografia relativamente. Non è propriamente la mia arte: ho imparato ad usare la macchina fotografica perché mi serviva saper fare le reference in autonomia. Da lì poi mi sono divertita a fare un po’ di post produzione ma più per mia conoscenza che come vera arte.

Il disegno lo sento invece più intimo: è il metodo con cui mi esprimo con più immediatezza. La pittura l’ho approcciata per lo più per commissioni esterne. È l’arte che conosco e padroneggio meglio tecnicamente ma è con il disegno che riesco ad esprimermi meglio e totalmente.

Una volta mi avevano commissionato una tela gigantesca, di svariati metri di lunghezza. Per preparare la base mi sono infilata i rollerblade e ho iniziato ad andare su e giù per la stanza a stendere il colore. Conoscendo la tecnica molto bene, mi posso permettere di dipingere con relax. Invece durante la realizzazione dei disegni, impiego una cura e un’attenzione quasi maniacale, controllando ogni millimetro di superficie e cercando ad ogni tratto la perfezione.

C’è un luogo preferito da cui trai ispirazione, in cui ti senti sempre a casa?

Sono molto affezionata al mio studio: le pareti viola, i soffitti altissimi, le finestre luminosissime, le montagne di libri, costituiscono la mia confort zone. Per quanto riguarda i luoghi esterni invece non sono molto “bucolica”: non amo particolarmente lavorare en-plain-air. Ma sicuramente riconosco ad alcuni posti un’energia particolare. Un’aula universitaria o semplicemente una biblioteca sono luoghi che ispirano l’introspezione. Comunque non amo operare fuori, se posso preferisco il mio studio.

Nei tuoi disegni emerge una tipologia di persona molto precisa.

Esattamente. Un uomo dell’est Europa: alto, capelli lisci e cortissimi, viso regolare. È il mio uomo ideale. Anche quando mi trovo a disegnare a mano libera, senza pensarci troppo, le facce che escono dal tratto della matita sono sempre quelle. Penso che sia importante avere qualcosa per cui sei riconoscibile.

Tra i soggetti che preferisci nei disegni c’è una vicinanza alle tematiche LGBTQ+.

Sicuramente c’è tanta solidarietà. Non mi interessa far parte di categorie prestabilite: mi sono sempre definita libera sotto tutti gli aspetti, anche per quanto riguarda l’orientamento sessuale, che per me è pansessuale. L’attrazione è diretta all’individuo, indipendentemente se sia maschio o femmina. Il mio modo di vedere il mondo è questo e di conseguenza tutto quello che è l’orientamento sessuale diverso dallo standard sicuramente mi affascina, soprattutto i rapporti tra uomini. Non potendo viverlo, sicuramente mi incuriosisce.

Quale è la sensibilità del mercato italiano rispetto alle tue opere d’arte?

Spero di esporre prossimamente anche fuori dell’Italia. Purtroppo nel nostro paese il mio modo di fare arte non è molto apprezzato. Il figurativo realistico fatica a riaffermarsi. Siamo ancora molto legati all’informale che aveva senso però in quel determinato periodo storico quando effettivamente era una novità. Oggi è la regola. Al figurativo oggi è richiesto molto significato, tanto messaggio dietro, perché altrimenti non sei interessante. Di fronte ad un dipinto astratto in cui le forme non sono immediatamente riconoscibili puoi viaggiare di più con la fantasia, capire molte cose oppure nulla. Un figurativo ti parla di suo, ti fa vedere esattamente le cose come stanno.

Adoro l’arte contemporanea, come fruitrice e come conoscitrice. Mi affascina e mi piace. Ma poi quando devo fare io non la sento mia. il mio è un figurativo molto specifico: la figura umana e nello specifico maschile.

Chi sarà il prossimo ragazzo dipinto e dove sarà seduto?

(ride). Sono in fase di studio e in viaggio di introspezione. Devo capire cosa effettivamente devo fare. Non riesco al momento a progettare cose diverse da quelle che ho già fatto. sono consapevole che ci voglia un equilibrio: è sicuramente vero che non si può dare retta all’emotività del momento perchè altrimenti non combini nulla. Ma quando poi progetti e ti metti all’opera, nel momento in cui vuoi fare quella cosa, stai facendo altro e non la puoi fare. Ci vuole disciplina e programmazione. Altrimenti resta una passione ma nel mio caso non può essere così: sento la necessità di restituire tutto quello che ho imparato finora.