Il film su RaiUno, per quanto ben fatto e commovente, non rivela ai telespettatori il vero epilogo della storia della Perugina.
Di Francesco Castellini – Bella la fiction di Rai Uno dedicata a Luisa Spagnoli. La valanga d’ascolti, attorno agli 8 milioni, pari a quella per Don Matteo e il Commissario Montalbano, la dice lunga sull’efficacia di un’iniziativa che ha saputo sposare felicemente insieme: storia, cultura e marketing. Così l’Italia ha potuto apprezzare la figura grandiosa di quella che fu una donna moderna vissuta 100 anni fa, e c’è da dire che la scoperta della personalità di Luisa, così grande dal punto di vista imprenditoriale e umano, ha entusiasmato tutti perché poco si conosceva di lei.
Eppure a conclusione di questa favola bella, che ha raccontato di Baci, di dolcezze e di straordinarie invenzioni, che ci ha fatto vedere una Perugia pensata sempre in bianco e nero finalmente a colori, a molti alla fine è rimasto come un retrosapore amaro in bocca. Soprattutto a coloro che a quel sogno devono molto perché magari hanno anche contribuito a realizzarlo; o a chi una fiction non basta per raccontarla tutta, che poi sono gli stessi che hanno assistito all’epilogo triste di una storia che di certo Luisa Spagnoli ha sempre scongiurato che così si compisse. Lei che si è sempre battuta per difendere la sua creatura e che anche in una scena della fiction ribadisce a chiari note la sua volontà, domandando in maniera retorica al pretendente della Perugina di allora: “Ma lei venderebbe mai la sua impresa?”. Con la fatale risposta del magnate di turno: “No, perché l’azienda rappresenta il mio sogno, la mia vita”.
Il film finisce con la morte per malattia di Luisa Spagnoli. Era il 1935. Per la Spagnoli e per la Perugina tutto procedeva a gonfie vele e quell’epilogo, se pur commovente, come il più classico finale di una fiaba, induceva gli spettatori comunque naturalmente a pensare… “e poi vissero tutti felici e contenti”. Ma chi conosce la storia di Perugia, chi ricorda gli anni della svendita, chi sa guardare al presente senza nostalgie, sa bene che purtroppo così non fu. Almeno per quanto riguarda le Industrie Buitoni Perugina c’è da dire che oggi a vivere felici e contenti sono rimasti in pochi. Di certo a sorridere ancora, e a godersi il portentoso tesoretto frutto di una speculazione degna di essere scritta nei libri di “bassa” finanza, c’è Carlo De Benedetti, colui che, dopo la dichiarazione di averla comprata per farne “un polo alimentare e non un mero affare”, mentre da una parte prometteva che acquistando il marchio per un pugno di lire si sarebbe dedicato solo ad investire e rilanciare l’azienda, dall’altra l’aveva già promessa agli svizzeri per 1.600 miliardi. Fu la generazione di Bruno Buitoni l’ultima a gestire l’azienda di famiglia. La crisi petrolifera del 1973, l’inflazione, il peso degli oneri finanziari condizionarono l’evoluzione societaria: alla holding familiare successe dunque – nel 1985 – la Cir di Carlo De Benedetti. Tre anni dopo, nel 1988, l’intero pacchetto veniva ceduto al Gruppo Nestlè.
Per la città e per l’intera regione fu un terremoto passato “inosservato” ai governanti di allora. L’accordo venne siglato a Milano, nella sede della Spafid. Il passaggio di mano fu totale, completo. Così un pezzo di imprenditoria locale legata al binomio vincente Buitoni-Spagnoli (era il 1907 quando Francesco Buitoni rilevò la Perugina creata da Annibale e Luisa Spagnoli che fu l’ideatrice e madrina del Bacio) non c’era più nei termini in cui era stato concepito. Non esisteva più quella brillante genialità di una famiglia che aveva creato idee, lavoro, territorialità ed eccellenze made in Italy. L’arrivo di Nestlé segnò ovviamente la fine dell’accentramento del potere decisionale a Perugia, la globalizzazione delle politiche industriali e di marketing del gruppo con i suoi stabilimenti in Europa e nel mondo e con tutte le problematiche che da questo derivano ancora, con tanto di cessione di pezzi importanti, di smantellamento, di riduzione di investimenti in loco. Su cosa direbbe oggi Luisa Spagnoli, sapendo che le “Rossana” non sono più parte fondamentale del progetto dell’azienda, se se ne è fatta portavoce la pronipote Carla Spagnoli: “Direbbe semplicemente che sono tutti una massa di incapaci”.
Quando Bruno Buitoni mi disse: “Un disastro lavorare in Umbria”
di F.C. – Ricordo ancora la sua squisita ospitalità, i suoi modi gentili, la sua classe innata. L’alba del 2000, erano passati quindici anni da quando Bruno Buitoni non era più al timone della prestigiosa azienda di famiglia, ma tutto in lui riluceva di una luce propria, dello stile incancellabile del grande capitano d’industria.
Ricordo la sua figura snella, il suo completo a doppio petto, il caffè fumante della moca da lui offerto direttamente all’ospite, la sua casa perugina, con vista sul centro storico illuminato dal sole di primavera, la vetrata che proiettava lo sguardo verso il parco, il cane lupo che pacioso faceva i suoi oziosi giri intorno alla piscina. Bruno Buitoni, classe 1924, mi accolse con tutti i crismi nella sua abitazione per parlare del recente passato. Io ero direttore del settimanale “Umbria Reporter”, fu l’occasione per raccontare con garbo le vicende di una delle famiglie di industriali più importanti del secolo passato che tanto avevano dato all’Umbria, soprattutto a Perugia. Con un po’ di nostalgia nella voce mi disegnò l’immagine di un’imprenditoria italiana di successo, lui amministratore delegato della Perugina e ultimo amministratore della Buitoni, discendente di una famiglia toscana che aveva scelto Perugia quale patria d’elezione e aveva trasformato il semplice aggettivo “Perugina” in un marchio di cioccolato fra i più conosciuti al mondo. “Abbiamo sempre avuto un legame stretto con questa terra – spiegò Buitoni – e siamo sempre stati a contatto con la comunità, nel segno dell’armonia, con le strutture interne ed esterne alla fabbrica”.
“Alla Buitoni e alla Perugina – mi confidò – ho legato tutta la mia vita. Vi arrivai nel 1947, dopo la laurea in Scienze economiche presa a Losanna. Il mio primo stipendio fu di 23mila e 700 lire”. E poi arrivano gli anni Settanta, bivio fondamentale nella storia degli industriali del “Borgo”, il peso degli oneri finanziari si fece sentire inesorabilmente. “Le aziende erano condotte bene e il marchio era forte. L’errore fu di non aver costituito una finanziaria quotata in borsa, come fece la Fiat, sarebbe stato il salto di qualità. Eravamo in troppi, 13 tra fratelli e cugini e non riuscimmo a trovare l’accordo. Abbiamo dovuto vendere l’azienda a chi l’avrebbe potuta gestire. Ci siamo illusi che De Benedetti fosse anche un imprenditore e non solo un finanziere”. E alla fatidica domanda “Per la famiglia Buitoni che cosa ha significato lavorare in Umbria?” la risposta fu inesorabile: “Un disastro. Alla fine hanno vinto un insieme di forze contrarie. Tra queste i sindacati che arrivavano sempre con dieci anni di ritardo, accorgendosi dei fenomeni solo dopo, quando questi si erano verificati. Basti dire che l’Ibp, prima di vendere, dovette assumere 400 dipendenti anche se era in crisi. E la cosa che mi ha fatto sempre infuriare è che una volta erano sempre sul piede di guerra. Da quando c’è la Nestlé, invece, sono stati sempre zitti”.