Dopo lo smantellamento del vecchio Policlinico, l’intera area, oggetto di una nuova ambiziosa progettazione, sta facendo registrare lungaggini e malumori fra i residenti
di Gerardo De Santis – Era stato annunciato come un angolo di paradiso, come un luogo proiettato direttamente verso il futuro, ma la tanto decantata Nuova Monteluce si sta rivelando una delusione, se non un flop dai risvolti nefasti. Dopo che si è chiuso per l’ultima volta il portone del Policlinico (era il 30 dicembre 2008), dopo le tante illusioni e le tante promesse, la realtà dei fatti è sotto gli occhi di tutti. Oggi passare da quelle parti è un po’ come addentrarsi in un angolo urbano dimenticato, dove tutto si muove a scartamento ridotto (ovviamente il paragone è a come era prima), un luogo desertificato, che fa registrare una continua transumanza, tanti cartelli “vendesi”, poche case affittate e attività commerciali che abbassano per sempre le saracinesche. Inoltre, come se non bastasse, la cronaca fa registrare tanti episodi di microcriminalità, che hanno il potere di gettare sale sulle ferite aperte di un quartiere che per un secolo è stato l’orgoglio cittadino, spazio nobile e privilegiato, punto di fermento, di vita e di speranza, e riferimento per tutta la regione.
E pensare che poco più di un anno fa ci fu il taglio del nastro della prima corte della Nuova Monteluce. Annunciato con tanto di inaugurazione in pompa magna come il preludio di un intervento architettonico in grado di offrire un luogo nuovo ai perugini. E se da una parte qualcosa comunque si è mosso, come il supermercato incastonato a fianco della chiesa, che lavora molto, il resto va inesorabilmente a rilento. Perfino il trasferimento degli uffici comunali nel primo edificio appena si entra sulla sinistra, non è ancora avvenuto. Così come non è stato rispettato l’impegno per l’estate di rendere attivi gli uffici e gli spazi commerciali.
All’inaugurazione avevano presenziato la presidente della Regione Catiuscia Marini, il sindaco Andrea Romizi, il rettore dell’Università Franco Moriconi. «Oggi si inaugura più che una semplice piazza – aveva esordito la governatrice – è un’operazione importante sul patrimonio della Regione e dell’università. E’ stata pensata una formula molto innovativa, che non è la semplice dismissione del patrimonio sanitario, di un luogo che per 99 anni ha fatto la storia della sanità umbra, ma di valorizzarlo con un’opera di riqualificazione. Il fondo finanziario è stato innovativo, è stato fatto un lavoro coordinato con il Comune e la Soprintendenza. La Regione ha partecipato in modo importante, anche con due investimenti diretti: uno è il trasferimento di servizi territoriali della Usl Umbria1 e l’altro la locazione di immobili in costruzione, che saranno residenze per gli universitari. Daremo così risposte sia agli studenti dell’Università degli studi che della Stranieri, ma anche a docenti e ricercatori di passaggio nel capoluogo». E anche il sindaco si era detto soddisfatto e molto ottimista: «A me piace – le parole di Romizi -, a Monteluce io credo che sia stato fatto un buon intervento di riqualificazione urbana. Ora, oltre al contenitore, dobbiamo portarci i contenuti. La strada è ancora lunga».
E sulla carta c’era in effetti di che stare allegri. Il quadro era di quelli incoraggianti. Tutti contenti per la realizzazione della piazza con i 3.350 mq di uffici suddivisi in 18 unità, di cui 14 già destinate ad uffici del Comune di Perugia, dello Spi Cgil e di alcuni professionisti e i 950 mq di spazi commerciali, costati 50 milioni di euro, tutti a carico dei privati; ma al di là del primo trancio, con la costruzione di due edifici, uffici, parcheggi interrati andare verso la seconda fase, che riguarda la realizzazione di residenze per studenti (comprendenti 150 posti letto e servizi annessi) e il presidio sanitario dell’Usl Umbria1, per i restanti lotti, sembra ora tutto un percorso ad ostacoli.
Ne parliamo con Paolo Galmacci, segretario dell’associazione “Il Bosco Sacro di Monteluce”, costituita ad inizio anno con l’intento di dare una spinta alla riqualificazione del quartiere.
Professore ci faccia lei la “fotografia” di questa realtà.
«Va subito detto che privati del Policlinico, siamo stati per anni allo sbando, assistendo allo smantellamento degli edifici dell’ospedale che un tempo era orgoglio della città e della regione. Di fronte a tale sfacelo abbiamo sospeso il giudizio su quanto stava avvenendo, increduli rispetto ai progetti e alle promesse, alle blandizie e agli ammiccamenti di politici e potenti. Ora la verità è davanti a noi, nei termini di una realtà architettonica e urbanistica tanto sbandierata prima quanto deludente poi, che va ad aggiungersi al degrado sociale, all’abbandono delle attività commerciali e degli insediamenti abitativi. Il re è nudo. Pochissimo di quanto è stato promesso per tenerci buoni vedrà la luce, mentre il quartiere manomesso ed impoverito si riscuote come da un brutto sogno».
Qual è il compito dell’associazione?
«Siamo alla ricerca di una nuova identità, non certo guardando con nostalgia al passato, piuttosto rivalutando prima di tutto una dimensione storica e culturale che è propria dell’area, fatta di memorie collettive e familiari, di tradizioni popolari ed istituzionali, laiche e religiose, che ruotano attorno alla natura del luogo dove sorge il quartiere, vale a dire la collina di Monteluce. Basterebbe ricordare che su questo sito, così aperto sul territorio umbro e così prossimo alle mura urbiche, frequentato fin da tempi antichissimi come centro religioso ed insieme commerciale legato allo scambio del bestiame, nel 1218 vennero gettate la basi del più importante monastero femminile di ispirazione francescana della città, forse dell’Italia centrale. Voluto fortemente da Papi ed ecclesiastici insigni, ma anche legato alle istituzioni comunali nel loro secolo d’oro, il Monastero delle Clarisse di Monteluce fu per sette secoli come un faro di luce spirituale e di orientamento per tutta la città e il territorio, costituendo uno dei punti di riferimento della sua identità religiosa. Finché nel 1910 si mise mano alla sua soppressione per far posto al nuovo ospedale cittadino, annegandone la memoria in una idea di progresso e modernità che risultava a quel tempo fin troppo seducente per salvare almeno le vestigia di quel glorioso e nobile passato».
In altre parole si potrebbe anche dire che “solo la cultura e la storia ci salverà”.
«La nostra associazione è nata dall’idea che a quella memoria si debba ritornare, non per dimenticare il passato più recente, ma anzi per conoscerlo meglio e valorizzarlo con la conoscenza delle sue radici storiche, che non sono mai venute meno, se non nelle menti distratte dei contemporanei. Quindi il nostro proposito è lo studio di quel passato, la divulgazione di ciò che fu anticamente “il monte del bosco sacro” (lucus) per la città primitiva, di ciò che rappresentò per la rinata Perugia dall’età medievale fino al Novecento; ma poi soprattutto la vicenda sociale e culturale del nuovo quartiere che venne sorgendo intorno all’ospedale, le innumerevoli storie individuali e collettive che si consolidarono in tradizioni popolari, civiche e religiose fino agli ultimi decenni, quando sembrava che Monteluce con il suo complesso sanitario fosse diventata la realtà urbanistica trainante per tutta la città e il territorio».
Di fronte a tanto “degrado” e delusione, si può parlare di un fermento di idee che la vostra associazione si è riproposta di fare proprie, dunque di divulgare e discutere?
«Esatto, è proprio questo il nostro intento. In questi ultimi travagliati anni, con la fine delle circoscrizioni, le persone più avvedute dei quartieri cittadini, – non voglio definirle gli intellettuali – costrette dalla nuova realtà sociale ed urbanistica ad uscire dal loro silenzioso e non più appagato isolamento, hanno cominciato a guardarsi intorno e anche a ritrovare il piacere di scambiarsi opinioni, con l’emozione di trovarne tante simili alle proprie. Subito si è trovato il coraggio di pensare a cosa fare per riprendere in mano la situazione facendo appunto leva su idee progettuali e costruttive. Idee che soltanto movimenti associativi possono sperare di far valere nel mondo contemporaneo, contro la sordità del potere e l’ottusità della burocrazia».
Insomma, si potrebbe parlare anche di “nuova forma di democrazia partecipativa”?
«Sì, oggi c’è sempre più gente pronta a scendere in campo. Come forma di argine contro l’impoverimento economico e commerciale conseguente allo spopolamento e allo smantellamento delle attività legate al funzionamento dell’ospedale, in tanti hanno sentito il bisogno di scendere in campo per svolgere un ruolo attivo e propulsivo, un tempo attribuito alle circoscrizioni. Così via via è affiorata una coscienza storica e sociale che punta ad unire le forze migliori e convogliare idee ed energie in un processo di rinascita, sottraendo il quartiere ad una deriva certa con gli strumenti della informazione sul presente e della memoria del passato, che costituiscono davvero la nostra nuova identità».